Giuseppina M. Bakhita nacque in Sudan nel 1869 e si spense a Schio, in provincia di Vicenza, nel 1947.
Come un fiore cresciuto tra le spine della sofferenza, conobbe il dolore del rapimento e della schiavitù, ma trovò in Italia la luce della fede e la grazia, accanto alle Figlie di Santa Maddalena di Canossa.

Ritratto di Santa Giuseppina Bakhita – Wikipedia, pubblico dominio
La “Madre Moretta”
A Schio, dove visse per molti anni, la gente la ricordava affettuosamente come “la nostra Madre Moretta”. La sua causa di canonizzazione fu avviata dodici anni dopo la sua morte, e il 1° dicembre 1978 la Chiesa ne riconobbe ufficialmente l’eroicità delle virtù.
La Provvidenza divina, che si prende cura dei fiori del campo e degli uccelli del cielo, guidò questa umile schiava sudanese attraverso innumerevoli sofferenze fino alla libertà, non solo terrena ma anche spirituale. Giuseppina consacrò così tutta la sua vita a Dio per l’avvento del Suo regno.
Il nome “Bakhita” non era quello che le era stato dato alla nascita. L’esperienza della schiavitù le aveva strappato persino il ricordo del proprio nome originario. Furono i suoi rapitori a chiamarla così, un nome che in arabo significa “fortunata”.
Venduta e rivenduta più volte nei mercati di El Obeid e di Khartoum, conobbe sulla propria pelle le umiliazioni, le sofferenze fisiche e morali della schiavitù.
A Khartoum, la sua sorte cambiò quando fu acquistata dal Console italiano Callisto Legnani. Per la prima volta dal giorno del suo rapimento, scoprì con stupore che nessuno la comandava con lo staffile, ma anzi la trattava con rispetto e gentilezza.
Nella casa del Console, Bakhita sperimentò la serenità e l’affetto, pur portando sempre dentro di sé la nostalgia della famiglia perduta.
Quando il Console fu costretto a lasciare il Sudan a causa della situazione politica, Bakhita gli chiese di poter partire con lui. Il suo desiderio fu accolto, e con lui e un amico, Augusto Michieli, salpò per l’Italia.
Giunta a Genova, il Console, su richiesta insistente della moglie di Michieli, accettò di affidare Bakhita a loro. La giovane africana si trasferì con la famiglia Michieli nella loro casa di Zianigo, nel Veneto, e quando nacque la loro figlia Mimmina, divenne la sua bambinaia e affettuosa amica.
In seguito, i Michieli decisero di trasferirsi a Suakin, sul Mar Rosso, per gestire un grande hotel, ma lasciarono Bakhita e Mimmina presso l’Istituto dei Catecumeni di Venezia, gestito dalle Suore Canossiane.
Fu in quel luogo che Bakhita incontrò Dio in modo consapevole. Aveva sempre percepito la presenza di un Essere superiore:
«Vedendo il sole, la luna e le stelle, mi chiedevo: chi è il padrone di queste meraviglie? Sentivo il desiderio di conoscerlo e onorarlo».
Dopo un periodo di catecumenato, il 9 gennaio 1890 ricevette i Sacramenti dell’iniziazione cristiana e assunse il nome di Giuseppina. Quel giorno fu per lei un’esplosione di gioia: spesso la si vedeva baciare il fonte battesimale ripetendo con emozione:
«Qui sono diventata figlia di Dio!»
Quando la signora Michieli tornò dall’Africa per riprendersi sua figlia e Bakhita, quest’ultima, con grande determinazione, rifiutò di partire. Aveva ormai trovato il vero senso della sua vita: servire Dio accanto alle Suore Canossiane. Poiché era maggiorenne, la legge italiana le garantiva la libertà di scegliere il proprio destino.
Sentendo la chiamata alla vita religiosa, decise di consacrarsi completamente al Signore nell’Istituto di Santa Maddalena di Canossa. L’8 dicembre 1896, pronunciò i voti, diventando Suor Giuseppina Bakhita. Con dolcezza e amore chiamava Dio “el me Paron” (il mio Signore).
Per oltre cinquant’anni visse nell’umiltà e nella dedizione, svolgendo con amore i suoi compiti nella casa di Schio: fu cuoca, guardarobiera, ricamatrice e portinaia.
Accogliendo i bambini all’ingresso dell’Istituto, posava le mani sulle loro teste con un gesto dolce e amorevole. La sua voce, dal timbro caldo e melodioso, portava conforto ai poveri, ai sofferenti e a chiunque bussasse alla porta.
L’umiltà, la semplicità e il suo sorriso costante conquistarono il cuore della gente di Schio. Le consorelle ammiravano la sua bontà e il suo profondo desiderio di far conoscere il Signore.
Spesso ripeteva:
«Siate buoni, amate il Signore, pregate per quelli che non lo conoscono. Sapeste che grande grazia è conoscere Dio!»
Anche quando arrivò la vecchiaia e la malattia, Giuseppina continuò a essere un esempio di fede e speranza. A chi le chiedeva come stesse, rispondeva sempre sorridendo:
«Come vol el Paron» (Come vuole il Signore).
Durante l’agonia, i ricordi dolorosi della sua prigionia tornarono a tormentarla. Supplicava l’infermiera:
«Mi allarghi le catene… pesano!»
Ma alla fine fu Maria Santissima a liberarla definitivamente. Le sue ultime parole furono:
«La Madonna! La Madonna!»
Il suo volto si illuminò in un ultimo, dolce sorriso, segno dell’incontro con la Madre del Signore.
Giuseppina Bakhita si spense l’8 febbraio 1947, circondata dalle sue consorelle in lacrime e in preghiera.
Oggi Santa Giuseppina Bakhita è venerata come un simbolo di speranza, di perdono e di amore universale. Il suo cammino, dalla schiavitù alla santità, è una testimonianza luminosa della forza della fede e della Provvidenza divina.
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