A metà del Cinquecento, il vescovo Vida ci offre una chiara testimonianza delle radici ideali della Controriforma. Nel suo De republicae dignitate (1556), immagina uno Stato etico e religioso ispirato ai principi cristiani, privo di inganni politici e fondato sulla semplicità della vita rurale, idealizzata come idilliaca e naturale.
Tuttavia, quando si passa dalle idealità alle sfide concrete, coloro che desideravano sinceramente il ripristino dei valori cristiani anche nella vita collettiva si trovano di fronte a un ostacolo insormontabile: il pensiero di Machiavelli.
I suoi scritti esprimevano con chiarezza implacabile le necessità di un’azione politica autonoma, volta a fini individuali, ormai indissolubilmente legata all’esistenza degli Stati nazionali sovrani. Per opporsi coerentemente a questa visione, sarebbe stato necessario restaurare l’unità gerarchica della cristianità medievale, una prospettiva anacronistica e irrealizzabile, o riaffermare la supremazia diretta del papato, una posizione che neppure i più ferventi sostenitori della Santa Sede osavano sostenere apertamente. Persino il cardinale gesuita Bellarmino, figura centrale delle dispute dottrinali, si limitò a difendere una supremazia spirituale e mediata del Pontefice, sufficiente a giustificare la destituzione di sovrani eretici. Tuttavia, nemmeno questa prudenza lo salvò dalla censura: Sisto V lo inserì nell’Indice insieme ai più noti eresiarchi.
Senza una base solida di coerenza dottrinale, la Controriforma si imbarcò in uno sforzo tanto ambizioso quanto sterile: cercare un compromesso tra l’etica cristiana e le necessità pratiche della politica, unendo le esigenze morali con quelle utilitarie.
Il primo atto simbolico di questa crociata fu la condanna di Machiavelli. I suoi scritti, pubblicati nel 1532 con dedica a un prelato di spicco, furono inseriti ventisette anni dopo nell’Indice dei libri proibiti da Paolo IV. Nel 1615, i Gesuiti di Ingolstadt arrivarono persino a bruciarne l’effigie, considerandolo un uomo demoniaco e perverso. Da quel momento, nessun autore politico si sentì esentato dal dedicare almeno qualche riga alla condanna di Machiavelli.
Curiosamente, sia cattolici che riformati si unirono, per una volta, nell’anatema contro di lui. Tuttavia, l’avversione dei calvinisti era coerente con i loro principi: non stupisce l’ostilità degli ugonotti francesi, che vedevano negli spregiudicati consiglieri toscani di Caterina de’ Medici una minaccia per la monarchia francese. Gli italiani, invece, più pragmatici e inclini a un approccio concreto, trovarono nel linguaggio di Machiavelli una forte attrattiva. La sua condanna divenne presto una formalità vuota, priva di reale incisività. I suoi testi continuarono a circolare, ma mascherati sotto il nome di Tacito.
Se nella prima metà del secolo gli studiosi si erano rivolti principalmente a Livio, storico idealista della Repubblica, l’affermazione dei principati portò a un interesse crescente per Tacito. Lo storico dell’Impero affascinava per la sua capacità di analisi psicologica, per il modo in cui scomponeva gli eventi nei loro moventi più profondi, per il suo realismo tagliente e la sua spregiudicatezza nel mettere a nudo la natura umana. Tiberio, con la sua abilità nella simulazione, sembrava incarnare perfettamente il prototipo del “principe rinascimentale“, simile a un Cesare Borgia sul trono imperiale.
Le opere di Tacito divennero una fonte inesauribile per i politici, che vi trovavano espedienti e compromessi adatti a soddisfare l’egoismo umano e la volontà di potenza. Protetto dalla sua antichità, Tacito sfuggì ai fulmini dell’Indice e dell’Inquisizione, e attraverso traduzioni e commenti trasmise quelle stesse verità amare che avevano reso Machiavelli tanto controverso.