Il nome di Artemisia, evocativo della dea della caccia Artemide, è legato a una delle figure femminili più straordinarie dell’antichità. Figlia di Ligdami I, satrapo di Alicarnasso, e di madre cretese, salì al trono della Caria alla morte del marito, come reggente del figlio Pisindeli, ancora troppo giovane per governare.

Artemisia I – Wikipedia, pubblico dominio

Il suo dominio, formalmente sottoposto all’autorità dell’Impero achemenide, comprendeva la regione della Caria, nell’attuale Turchia sud-occidentale, e includeva città e isole importanti come Alicarnasso, Calinda, Coo e Nisiro.

Artemisia non era una regina convenzionale: preferiva il mare e la guerra alla vita di corte. Secondo Polieno, durante le sue missioni navali, era solita cambiare le insegne e i colori della propria trireme, simulando di volta in volta di appartenere alla flotta greca o persiana, per confondere le navi incontrate e decidere, secondo le circostanze, se fuggire indisturbata o attaccare di sorpresa.

Quando Serse, il re di Persia, ricevette un rifiuto da parte dell’isola di Coo alla richiesta di sottomissione, si rivolse proprio ad Artemisia per conquistarla, segno dell’alta fiducia che riponeva in lei. Polieno racconta anche un altro episodio emblematico: per espugnare Eraclea al Latmo, Artemisia fece nascondere i suoi soldati nei pressi della città e si presentò lei stessa in processione con donne, eunuchi e musici, fingendo di rendere omaggio alla Madre degli dèi. Gli abitanti, incuriositi, seguirono il corteo lasciando incustodite le mura: fu così che i suoi uomini presero la città quasi senza combattere.

Il nome di Artemisia entra nella leggenda durante la seconda guerra persiana, quando Serse invade la Grecia nel 480 a.C. In qualità di alleata e vassalla, Artemisia si unisce alla spedizione con cinque triremi, note per l’efficienza e il valore dei loro equipaggi, seconde solo alle celebri navi sidonie. Era l’unica comandante donna in tutta la flotta persiana, e secondo Erodoto, si distinse con onore nella battaglia di Capo Artemisio, combattuta in contemporanea alla celebre resistenza delle Termopili.

Wilhelm von Kaulbach – La battaglia di Salamina, 1868 – Wikipedia, pubblico dominio

Dopo quella battaglia, Serse riunì i suoi comandanti per decidere come procedere: sferrare un altro attacco via mare o passare a un’azione terrestre. Tutti i generali consigliarono la battaglia navale, tranne Artemisia. La regina, con lucidità strategica, suggerì invece di evitare lo scontro in mare, dove i Greci avevano dimostrato superiorità. Propose di mantenere la flotta al sicuro, magari minacciando il Peloponneso via terra, sfruttando la schiacciante superiorità dell’esercito persiano. Secondo lei, un’eventuale sconfitta navale avrebbe compromesso rifornimenti e morale, soprattutto considerando l’inaffidabilità di alcune flotte alleate.

Nonostante l’alto rispetto che Serse nutriva per Artemisia, preferì seguire il parere della maggioranza e si preparò alla battaglia navale decisiva, che avrebbe osservato personalmente da un trono eretto sul monte Egaleo.

TIMAYENIS (1881) p1.208 SALAMIS – Wikipedia, pubblico dominio

Lo scontro avvenne a Salamina nel settembre del 480 a.C. e si concluse con una clamorosa vittoria greca, grazie alla strategia di Temistocle e all’agilità delle navi elleniche.

Durante la disfatta persiana, Artemisia mise in atto uno stratagemma audace per salvare sé stessa e la propria nave. Ordinò di cambiare le insegne della trireme, sostituendo i simboli persiani con quelli greci, preparati in anticipo. Così, le navi elleniche la scambiarono per un’alleata e la lasciarono passare. Per rendere l’inganno ancora più credibile, attaccò e affondò una nave persiana vicina: quella del re di Calinda, Damasitimo, suo alleato e suddito. Erodoto sospetta che fosse un gesto deliberato, forse per regolare un conto personale.

Non vi furono sopravvissuti a raccontare la verità. Il trierarca ateniese Aminia, che avrebbe potuto identificarla, fu ingannato e si allontanò. Gli Ateniesi avevano addirittura promesso una ricompensa di diecimila dracme a chi l’avesse uccisa, trovando inconcepibile che una donna osasse muovere guerra contro Atene.

Serse, osservando la scena dalla riva e ignaro dell’inganno, rimase talmente colpito dal gesto di Artemisia da pronunciare parole diventate leggendarie: “I miei uomini sono diventati donne e le mie donne sono diventate uomini.”

Secondo Plutarco, durante il ritiro, Artemisia recuperò in mare il corpo del fratello del re, Ariamene, caduto in battaglia, e lo restituì a Serse affinché ricevesse gli onori funebri.

Serse I – Wikipedia, pubblico dominio

Dopo la disfatta, Serse si rivolse ancora una volta ad Artemisia per un consiglio: doveva proseguire la guerra o tornare in Persia?

La regina, con fredda saggezza, lo invitò a lasciare il comando al generale Mardonio. In caso di vittoria, il merito sarebbe stato comunque del re; in caso di sconfitta, la colpa sarebbe ricaduta sul comandante.

Serse accettò il suggerimento e rientrò in patria, mentre Mardonio, rimasto in Grecia, fu infine sconfitto a Platea.

Per ricompensare il coraggio e l’intelligenza di Artemisia, il Re dei Re (Serse) le donò una preziosa armatura greca e la inviò a Efeso con l’incarico di prendersi cura dei suoi figli illegittimi.

 

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