Nei quartieri popolari della vecchia Palermo, sebbene molte delle antiche tradizioni e usanze siano ormai scomparse, alcuni motti resistono ancora, ripetuti di frequente anche se spesso chi li pronuncia non ne conosce né l’origine né il significato. Uno di questi detti è particolarmente diffuso e viene utilizzato per scherzare bonariamente sulle ragazze di determinati rioni della città.
Capita, infatti, che quando gli abitanti di un vecchio quartiere vedono passare per strada tre ragazze, vestite con cura e fiere nel loro incedere, incuranti degli sguardi dei giovani oziosi del posto, qualcuno esclami: “Talia! Li tri donni chi mali ci abbinni!” (Guarda! Le tre donne a cui è successo del male).
Il motto, pronunciato in tono scherzoso e privo di malizia, cela in realtà una storia antica e tragica.
L’origine di questo detto risale a un evento remoto, avvenuto intorno alla metà del XIII secolo, all’interno del Palazzo Reale di Palermo. Questo episodio, sebbene dimenticato dai più, ha lasciato traccia nel linguaggio popolare, diventando un’espressione tramandata nel tempo, anche se svuotata del suo antico significato.
Il complesso monumentale del Palazzo Reale di Palermo, così come lo vediamo oggi, è il risultato di secoli di trasformazioni che hanno alterato le sue strutture originarie, testimoniando gli eventi storici che si sono succeduti tra le sue mura. Sebbene la sua origine risalga all’epoca araba, dopo la conquista normanna del 1072, il palazzo divenne la residenza dei re normanni. Nel XII secolo, l’edificio doveva apparire come un insieme di torri massicce, alcune di epoca araba e altre costruite dai normanni: tra queste si ricordano la torre Pisana, la Gioaria, la Chirimbi e la Greca.
Una delle caratteristiche più misteriose del palazzo è il suo complesso sotterraneo, solo parzialmente esplorato, costituito da una rete di cunicoli che si estendono sotto la struttura e si dirigono verso varie direzioni all’esterno. Questi passaggi segreti erano spesso dotati di trabocchetti, simili a quello ancora esistente nella torre Pisana, che secondo lo storico Fazello venivano utilizzati frequentemente da Federico II.
Federico II, imperatore del Sacro Romano Impero, trasformò la corte di Palermo in un centro di vivace attività intellettuale, diventando anche il culla della poesia artistica italiana.
Tuttavia, in ambito politico, il sovrano era noto per la sua durezza. Nel 1243, attirò con l’inganno al palazzo le mogli di tre gentiluomini ribelli: Francesco Tebaldo, Guglielmo di San Severino e un terzo patrizio napoletano di cui il nome è sconosciuto. Le consorti furono rinchiuse e probabilmente murate vive in un sotterraneo del palazzo, dove morirono di fame e stenti. Questo tragico avvenimento rimase avvolto nel mistero per secoli, poiché venne gestito con grande segretezza.
Fu solo nel 1550, quando il viceré De Vega ordinò significativi lavori di ristrutturazione al Palazzo, riducendo parte della sua architettura medievale e abbassando le torri, che il destino delle tre nobili dame venne finalmente svelato. Durante le demolizioni, fu abbattuta la torre Rossa, situata di fronte all’antico castello e così chiamata per i suoi mattoni di argilla. All’interno della torre, gli operai scoprirono i corpi perfettamente mummificati delle tre donne, ancora vestite con i loro abiti di seta.
Questo ritrovamento impressionò profondamente l’immaginario popolare, e fu proprio in quel periodo che il motto “li tri donni chi mali ci abbinni” entrò a far parte del folclore di Palermo, soprattutto nei quartieri vicini al Palazzo, come l’Albergheria. Nonostante fossero trascorsi più di tre secoli, il mistero delle tre nobili dame, scomparse nei meandri oscuri del palazzo, venne finalmente risolto.
Il lungo lasso di tempo trascorso e il silenzio mantenuto sulle circostanze dell’omicidio avevano però cancellato il ricordo preciso dell’evento. Il ritrovamento dei cadaveri non fu collegato dagli abitanti al vero episodio storico, e per loro si trattava semplicemente di tre donne sfortunate, alle quali era capitata una “mala sorte“. Così, il macabro rinvenimento non entrò nella tradizione popolare attraverso le narrazioni dei cantastorie che animavano le piazze e le strade di Palermo.
Oggi, la memoria di quella tragica vicenda è quasi completamente svanita. Il detto “li tri donni chi mali ci abbinni” viene utilizzato senza conoscere il suo significato originario e serve soltanto a scherzare, senza malizia, sulle ragazze prosperose dei quartieri popolari della città. Tuttavia, anche se inconsciamente, queste parole portano ancora con sé un’ombra del passato, un’eco lontana del regno di Federico di Germania, che continua a sopravvivere nei vicoli della vecchia Palermo.
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vedi anche:
- Appunti di storia della Sicilia
- Federico II, stupor mundi
- Federico II, una nascita che fu per tutti un prodigio
- La morte di Federico II e la maledizione degli Hohenstaufen
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