Il Gattopardo affermava: “Noi siciliani siamo dèi”, ma omise di aggiungere che siamo anche pupari.
E perché pupari? Perché, calandoci in questo ruolo, ci illudiamo di controllare i fili del nostro piccolo mondo, senza renderci conto dei fili ben più grandi che muovono noi stessi.
Questa figura del puparo ha radici antiche, come ci ricorda Senofonte, discepolo di Socrate, che narra di un puparo di Siracusa. Questo artista siciliano intrattenne con le sue marionette un gruppo di amici di Autolico, vincitore di una gara atletica, e di Callia, intorno al 421 a.C.
Durante l’incontro, Socrate, presente tra gli ospiti, chiese al puparo di mettere in scena una danza. Questi presentò la danza di Bacco e Arianna, suscitando grande ammirazione.
Socrate, colpito dalla performance, gli chiese cosa desiderasse per essere felice. Il puparo, con sagace ironia siciliana, rispose:
“Che ci siano molti sciocchi, perché essi, accorrendo agli spettacoli dei miei burattini, mi danno da vivere”.
Le successive dominazioni che si sono susseguite in Sicilia hanno raffinato tanto il gusto estetico quanto il senso satirico dei pupari. Da semplice passatempo, l’arte del puparo si è trasformata nella grandiosa Opera dei Pupi, che racconta le epiche battaglie medievali tra i cavalieri di Carlo Magno e i Mori. Questa tradizione è un pilastro della cultura siciliana, anche se oggi è spesso ridotta a un evento folkloristico.
Il puparo non è solo un abile artigiano, ma anche un formidabile interprete: con la sua voce e i suoi gesti, dà vita e carattere ai suoi personaggi, trasportando il pubblico nel mondo eroico di Orlando, Rinaldo e del temibile Saladino. Eppure, questa tradizione rischia di scomparire.
Dovremmo chiederci: con il tramonto dei pupari, non stiamo forse assistendo anche al tramonto di noi stessi, relegando il valore della nostra sicilianità a qualcosa di marginale e insignificante?
È difficile stabilire con precisione il momento e il luogo esatti in cui nacquero le marionette armate con repertorio cavalleresco.
Si sa che già nell’800 esistevano rudimentali pupi con armature in diverse città italiane, come Roma, Napoli e Genova. Tuttavia, è in Sicilia che queste figure si sono evolute fino a diventare i pupi che oggi conosciamo, trasformandosi in un simbolo distintivo della cultura dell’isola.
La diffusione del teatro dei pupi in un’area prevalentemente meridionale ha portato alcuni studiosi a ipotizzare un’origine spagnola, data l’influenza culturale esercitata dalla Spagna sul Mezzogiorno. Non è però chiaro né il percorso né il periodo preciso in cui queste marionette siano giunte in Italia. Sul finire del Settecento, a Napoli e Palermo si trovavano marionette di vario genere, ma queste non erano ancora veri pupi, essendo costruite con materiali semplici come cartone e stagnola.
Fu solo a partire dalla metà dell’Ottocento che gli artigiani siciliani diedero una svolta a questa tradizione, trasformando quel semplice assemblaggio di legno e stoffa in opere d’arte raffinate. Le armature furono realizzate in metallo lavorato, decorate con cesellature, sbalzi e arabeschi, mentre gli abiti furono confezionati con stoffe pregiate. Parallelamente, i meccanismi che muovevano i pupi vennero perfezionati: al posto dei semplici fili, un’asta di ferro consentiva movimenti più complessi e realistici, come impugnare e riporre la spada, abbassare la visiera dell’elmo, o esprimere emozioni tramite gesti simbolici.
Questo processo di raffinamento continuò fino ai giorni nostri, portando non solo a pupi sempre più elaborati ma anche allo sviluppo di tecniche sceniche che elevavano le rappresentazioni a veri e propri spettacoli artistici.
Fu solo agli inizi del XIX secolo che l’Opera dei Pupi superò il semplice intrattenimento popolare, conquistando l’interesse della borghesia e dei ceti colti. Questo avvenne in un periodo in cui il folklore veniva visto come una fonte autentica di memoria storica e identitaria. Come osservò Ettore Li Gotti, “l’anima dei pupi divenne l’espressione dei sentimenti e delle aspirazioni di giustizia di una classe sociale“.
Durante le rappresentazioni, i pupari infondevano ai loro pupi emozioni profonde, trasformandoli in portavoce di ideali di giustizia e libertà. Questi valori trovavano risonanza non solo tra le classi popolari, ma anche nella borghesia e nei ceti colti, specialmente nella Sicilia del primo Ottocento, dove l’Opera dei Pupi assunse un significato anche politico. Non è un caso che il pubblico dell’opera fosse lo stesso che lottò contro il dominio borbonico, identificandosi con i paladini e i loro ideali.
L’Opera dei Pupi divenne quindi un fenomeno culturale e sociale, capace di creare un legame emotivo profondo con il pubblico. Gli spettatori non si limitavano a osservare passivamente, ma partecipavano attivamente applaudendo i paladini e contestando i Mori, spesso con fischi e a volte persino lanciando oggetti sul palco. In alcuni casi, l’entusiasmo sfociava in gesti estremi: si narra che qualche spettatore, esasperato, arrivasse a sparare con una rivoltella contro il pupo traditore.
Questa straordinaria partecipazione spiega la longevità delle rappresentazioni, che spesso si svolgevano per mesi, con il pubblico che tornava sera dopo sera per seguire le avventure dei propri eroi. L’Opera dei Pupi non era solo uno spettacolo, ma un mezzo di identificazione collettiva, un’arte che fondeva intrattenimento, cultura e passione popolare in una sintesi unica e irripetibile.
.
.