Il 28 luglio 1525, lungo il Lungotevere a Roma, si consuma un drammatico episodio di violenza: Pietro Aretino, noto poeta e letterato, è vittima di un brutale attentato. Accoltellato da un uomo mascherato, questo attacco rappresenta il culmine della controversa vicenda legata ai “modi” e ai “sonetti lussuriosi”, opere che avevano scosso gli ambienti ecclesiastici e mondani.
Aretino, soprannominato “flagello dei principi”, viene prontamente soccorso e portato a casa di amici per ricevere cure immediate. Le ferite riportate, in particolare due al petto, risultano gravi, e una è considerata potenzialmente letale. Ne dà testimonianza Girolamo da Schio, vescovo di Vaison, in una lettera indirizzata al Marchese di Mantova il 30 luglio 1525:
“[…] haverà inteso […] el strano caso accaduto l’altra notte al nostro M. P. Arretino, che fu, su le due hore, sendo lui a cavallo, ferito da uno a piedi de due pugnalate nel petto, l’una de quali è mortale; tamen, con l’aiuto de Dio, spero che lo salveremo […]”.
Altre fonti suggeriscono che le ferite potrebbero essere state addirittura quattro o cinque, coinvolgendo anche mani e volto.
La ricerca del colpevole diventa immediata e frenetica. Da Schio menziona nella sua lettera che “de già sono 9 persone in prigione per tal caso, et credo che tutto se saperà“. Le indagini portano presto a identificare l’aggressore: Achille della Volta, servo di monsignor Giovan Matteo Giberti, vescovo di Verona e datario pontificio.
L’accusa trova conferma anche in un componimento poetico di Francesco Berni, “Contra Pietro Aretino”, scritto intorno al 1527, in cui si allude a un’arma “meglio di quel d’Achille e più calzante”.
Tuttavia, la piena conferma ufficiale giungerà solo nel 1542, quando lo stesso della Volta, durante un processo per omicidio a Bologna, si autoaccuserà, ammettendo di aver sferrato due pugnalate al petto di Aretino.
Un elemento peculiare della vicenda è la presenza del sicario al capezzale di Aretino subito dopo l’attentato, dettaglio che conferma la complessità del loro rapporto e lascia intravedere una conoscenza pregressa tra i due. Mentre le cronache forniscono abbondanti dettagli sull’attentato, le informazioni su Achille della Volta, la sua vita e il suo profilo restano frammentarie e avvolte nel mistero.
Lo studioso che più approfonditamente ha illustrato le fasi salienti della vicenda è Carlo Bertani, autore dell’opera Pietro Aretino e le sue opere secondo nuove indagini, pubblicata nel 1901 da Quadrio a Sondrio. Tale studio è citato sia da Angelo Romano in Periegesi aretiniane (Salerno Editrice, Roma, 1991) che da Paul Larivaille in Pietro Aretino (Salerno Editrice, Roma, 1997).
Larivaille sembra riprendere la citazione di Romano, ma con alcune omissioni significative, come ad esempio il luogo specifico della nunziatura.
Le protezioni di cui godeva Achille della Volta emergono chiaramente dal fatto che non fu mai punito per l’attentato a Pietro Aretino, neanche in tempi successivi, e che fu probabilmente assolto nel processo di Bologna del 1542.
A Roma, della Volta era membro dell’entourage di monsignor Giovan Matteo Giberti, il datario pontificio, ritenuto dai biografi di Aretino il mandante dell’aggressione, sebbene Giberti abbia sempre negato tale accusa in una corrispondenza con il duca di Mantova.
Grazie alla posizione privilegiata presso Giberti, Achille riuscì ad ottenere incarichi di rilievo, inclusa la nunziatura apostolica a Piacenza. Significativi sono anche i suoi rapporti con Giovan Maria Ciocchi dal Monte, che sarebbe poi divenuto Papa Giulio III tra il 1550 e il 1555.
Un evento notevole è la riconciliazione tra Pietro Aretino e Achille della Volta, documentata in una lettera del 1550 indirizzata a Bartolomeo Sala, in cui Aretino afferma di aver perdonato Achille: “[…] ho riconciliato col mio animo messer Achille […]”. Questa riconciliazione, oltre a rappresentare un atto di clemenza, sottolinea l’influenza e il potere di Achille, nonostante il passato violento.
Per quanto riguarda il cognome, esiste una variazione tra “Della Volta” e “della Volta” nei documenti. Alcune fonti romane adottano la versione ufficiale “Della Volta”, mentre in altri documenti, soprattutto bolognesi e veneziani, appare semplicemente come “Volta”. Lo stesso Aretino utilizza questa forma abbreviata in due lettere indirizzate a Sala: in quella del 1550, riferendosi a dei frutti ricevuti, scrive “Questi da Bologna mi vengono, ed hammigli il Volta mandati”, e in una lettera del 1552, esprimendo rammarico di non poter contraccambiare un dono di olive con un quadro desiderato da Achille, afferma: “[…] l’olive che mi manda il da bene Achille onorando son bastanti a gratificare non che la mia, ma la mensa di un re […]”.
Mentre recenti studiosi, come Romano e Larivaille, optano per la dicitura “Della Volta”, il critico Luzio, nell’Ottocento, preferiva “della Volta”.
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